Lunedì 6 Aprile 2020
Bollettino Essence n. 8
Monza, 06-03-2020
Ci sono voluti centomila anni a Homo sapiens per passare dalla caccia alla coltivazione e all’allevamento; e poi altri diecimila anni per arrivare alla rivoluzione industriale. Da pochi decenni, l’applicazione di “logiche managerial-industriali” (e tecnologie digitali) alle nostre antiche attività di sostentamento ne ha cambiato la natura e la velocità, dando inizio a disboscamento indiscriminato, caccia e pesca non sostenibili, inquinamento di falda terrestre e oceani e atmosfera, estrazione minerale piratesca, urbanizzazione d’assalto.
Lo sfruttamento indiscriminato del pianeta sta disintegrando a velocità vertiginosa degli ecosistemi vecchi di centinaia di migliaia di anni. In questi sistemi vivono una miriade di specie vegetali e animali del tutto sconosciute – ma soprattutto, milioni di tipi di virus e batteri di cui non immaginiamo neanche l’esistenza.
Questi microbi possono riprodursi solo dentro un altro organismo, e nel corso dei millenni hanno raggiunto un equilibrio nel loro ecosistema originale, trovando l’ospite giusto: di solito una specie animale (scimmia, pipistrello,..) il cui sistema immunitario non sia così forte da sopprimerli, ma sia abbastanza forte da evitare che il loro proliferare uccida l’ospite: infatti, se l’ospite muore, muore anche il microbo. Esattamente quello che hanno fatto con noi il virus dell’herpes e i miliardi di batteri della nostra flora intestinale (con i quali peraltro abbiamo un rapporto di reciproco beneficio).
Ma questi equilibri stabili (o addirittura virtuosi) si sono appunto costruiti in centinaia di migliaia di anni. La nostra irruzione in antichi ecosistemi in equilibrio invece crea crisi improvvise: se noi sterminiamo gli ospiti naturali di virus e batteri, questi devono estinguersi o trovarne altri.
Homo sapiens è un ospite alternativo ideale: siamo la sola specie veramente onnivora (sì, anche nel 3° millennio molti di noi mangiano regolarmente carne di scimmia, pangolino e pipistrello), e questo ci espone al contagio; viviamo a lungo e siamo prolifici (il nostro numero è raddoppiato negli ultimi trent’anni); soprattutto, i nostri continui contatti e spostamenti offrono ai microbi una miriade di nuovi organismi dove proliferare.
Queste caratteristiche ci rendono particolarmente vulnerabili ai virus, molti dei quali sembrano “disegnati” apposta per sfruttarle. Basti un esempio: il patrimonio genetico della nostra specie è scritto nel DNA, un testo complesso e ricco di informazioni che contiene circa 3 miliardi di “lettere” e che, visto il nostro ciclo di vita, impiega decenni per essere trasmesso (e dunque per evolvere a fronte di nuovi pericoli). I virus invece, hanno solo il RNA, catene semplicissime di proteine (di 30 mila lettere al massimo), che sono “codice puro”: un software senza un hardware. È per questo che un virus ha bisogno di un organismo ospite per riprodursi, ed è per questo che pu farlo a velocità vertiginosa (milioni di repliche in poche ore), adattandosi così per sconfiggere il sistema immunitario umano che è chiamato a fronteggiarlo.
Nel 16° e 17° secolo, il risultato di questa lotta fra forze impari è stato lo sterminio delle popolazioni native del Nuovo Mondo, come abbiamo visto nello scorso Bollettino.
Oggi, ci scopriamo tutti giganti d’argilla: mentalmente velocissimi a scoprire e innovare (a volte usando male il nostro genio), ma fisiologicamente lentissimi ad adeguarci ai nuovi nemici che incontriamo sul nostro cammino.